Essere o Ben-Essere? SMDW2011



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2011, annata particolarmente movimentata in particolare dal lato lavorativo. Uno di questi impegni, sicuramente il più intenso in quanto concentrato in una settimana di duro lavoro, è stato il workshop assegnatomi allo IUAV di San Marino. Oltre al mio evidente imbarazzo dei primi giorni, il grosso del problema era sicuramente quello di portare i ragazzi e istradarli su un percorso lineare efficace, soprattutto dato il breve periodo in cui doveva essere realizzato il progetto. Questa era certamente la sfida più audace.

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Il tema generale della settimana di workshop è Design del Ben-Essere. Confortevole, Sicuro, Usabile. Esiste poco, al mondo, di più generico. “L’obiettivo è di offrire agli studenti una concreta esperienza di progettazione intorno a tematiche di estrema attualità, ma anche di far emergere possibili spunti che meritino di essere approfonditi in una fase di ricerca post-workshop.” I workshop sono 8, due di comunicazione visiva, due di «urbanistica» e gli altri di product design. Il tema del mio laboratorio è divertente, ma altrettanto generico: Comunicare buone pratiche di comportamento nella sede universitaria. Come scriverebbero scrittori d’altri tempi: trasecolo. Dopo una fase di studio, il tema si rivela molto più concreto di quello che pensassi. L’università mi chiede di guidare la realizzazione di progetti che possano “contribuire a ridurre vari tipi di sprechi ma anche per migliorare le relazioni con le persone e il comfort collettivo negli spazi che usiamo quotidianamente”. Easy no?

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Reduce da una primavera come assistente in un corso di basic design 2d, mi sono più volte posto la domanda “ma che gli faccio fare a questi ragazzi?”. I professori e designer che mi hanno preceduto in un workshop sono riusciti a confidarmi l’ingrediente speciale che – credo – penso essere riuscito a attivare nel loro processo creativo. Il mio dubbio nasceva principalmente dalla mia incapacità di gestire così tante persone – difficilmente può succedere nel mondo del graphic design italiano di avere un gruppo di lavoro così vasto da guidare – mettendomi alla prova in particolare nella capacità di non trasferire loro tutta la mia “complessità”, in parole povere: dovendoli portare nel più breve tempo possibile ad elaborare un tema sostanzioso, avrei potuto rischiare di caricarli di concetti e render loro la vita ancora più difficile. Così dopo una serie di confronti con il direttore, alcuni designer e Lucia Del Zotto, l’assistente assegnatami, abbiamo pensato una fase di analisi del problema da proporre per “arrotondare” il tema e, come extra, un grosso moodboard con la suddivisione per parole chiave composto da immagini e suggestione create non da me, ma da una ventina tra designer, architetti, fotografi, artisti, ma anche un design strategist, una project manager, un laureato in storia ed un ingegnere informatico. Questa è la nostra ricetta per comunicare la complessità e l’ingrediente segreto è essere aperti mentalmente il più possibile, saper leggere e distinguere gli stimoli esterni, metterli in relazione tra loro, farli coesistere. Niente di più, niente di meno.

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Rileggendo il tema assegnatomi, le parole chiave erano evidenti: confortevole, sicuro, usabile, benessere, sostenibilile, comportamenti imitativi, contribuire a ridurre sprechi, migliorare la relazione con le persone, confort collettivo, comunicare e sensibilizzare. Viene da se che i focus attorno ai quali bisogna cimentarsi sono tre tipi di relazioni: trapersona e personapersona e spazio circostantepersona e oggetti. Ed il comportamento delle persone è l’attore da muovere sul palcoscenico, quello che con le sue azioni – appunto – modifica l’ambiente che lo circonda, lo contamina, lo contagia. Attorno alla corretta “manipolazione” di questo fattore si muove il tema del workshop e, soprattutto, si scontrano le capacità creative dei ragazzi. Molteplici sono le strade da percorrere per raggiungere gli obbiettivi prefissi. Ho fatto una preselezione di progetti che potessero stimolarli e li ho presentati loro filtrandoli per medium usato e/o per significato espresso. L’analisi partiva da alcuni esempi degni di nota per permettere ai ragazzi di comprendere come i «comportamenti» espressi nei progetti potessero esserecomunicativi, migliorativiimitativi o contributivi/partecipativi. “Comunicativi” nella misura in cui attraverso dati, segni, realizzazione tecnica o analisi più o meno laterale dei contenuti si fosse capaci di proporre dei comportamenti o la riflessione su essi, comunicandoli esplicitamente. “Migliorativi” quando la proposta di un comportamento si fa più analitica, profonda: riguardante il “consiglio”, la narrazione o l’esperienza nell’effettuare una tale azione che porta a un beneficio senza mostrarlo esplicitamente. Ho evidenziato i comportamenti “imitativi” quando è l’oggetto stesso, il materiale di cui è composto o la natura circostante a “proporre” il miglior comportamente possibile da attuare. Infine, ho analizzato come “partecipativo” il progetto che invita alla completazione o allo sviluppo un numero indefinito di utenti e li stimola, attiva, interroga sui più svariati temi, in particolare quelli di tipo etico/sociale. Infine, era mio personale interesse che si divertissero nel creare progetti che arrivassero a stravolgere quantomeno il loro abituale senso del lavoro che, per ovvi motivi, è puramente scolastico, accademico. Non mi aspettavo a tutti i costi provocazioni o stravolgimenti in genere, ma, unicamente, mi premeva non abusassero di canoni ortodossi, standard, del comunicare, ma che raggiungessero il proprio scopo attraverso un procedimento capace di portarli ad un risultato coerente e, scusate il termine, “originale”. Possibilmente attraverso visioni un po’ più “alternative” o “laterali”. Questo non per la necessità in sè di distinguersi, ma soltanto per non replicare in maniera pedissequa e trovarsi di fronte a problematiche che si possano considerare, in relazione all’esperienza di ognuno, più o meno “nuove”. Abbiamo diviso i ragazzi in 8 gruppi da 3, uno ogni anno accademico, in maniera che si stabilissero più facilemente gerarchie e fossero meno presenti “amicizie” pregresse. Suona cinico, ma è stato incredibilmente useful.

I risultati. Cartaccia: un progetto che si prende a cuore lo spreco della materia prima vitale per qualsiasi designer: la carta. Si compone di due media, uno fisico ed uno online. I due dialogano felicemente. Sul luogo dello “spreco”, gli ambienti dell’università, vi sono 4 contenitori ognuno riconoscibile con un codice visivo che contengono la carta nei 4 stadi della sua vita: la carta completamente nuova, quella usata su un lato, quella su entrambi i lati e gli scarti, i pezzi strappati etc. Ognuno dei quattro contenitori comunica varie proposte di come utilizzare la carta ed online sono presenti tutorial che spiegano ulteriormente e template da utilizzare, inoltre si potrà tenere sott’occhio il livello di utilizzo e/o spreco durante l’anno in quanto sui contenitori è presente un codice “metrico” di misurazione che definisce la quantità del loro riempimento che va settimanalmente aggiornato online.

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Cartaccia.

Creative Room: i ragazzi hanno lavorato intorno alla possibilità di rendere più forte ed empatica la relazione tra le persone nell’università, cercando di guardare oltre nello spazio in cui si muovono tutti i giorni e creando degli elementi grafici e comunicativi per amplificare con il loro utilizzo il rapporto che intercorre tra gli studenti. Così hanno pensato di utilizzare un codice visivo proveniente dal loro mondo, il design, come pretesto per proporre nuovi utilizzi degli spazi comuni. Così una forma proveniente dal morphing 3D diventa la base per la condivisione delle idee durante un brainstorming, l’interfaccia grafica che facilita la crenatura in Fontlab un sistema per aggregare le persone durante i momenti di pausa o isolarsi nel caso di una lettura profonda. Oppure la griglia tipografica di un programma di desktop publishing diventa il modo migliore per organizzare i contenuti delle bacheche avvisi dell’università.

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Creative Room

Don’t be foolish: altro tipo di problema è quello dell’educazione e del rispetto di alcune regole fondamentali di convivenza entro le mura universitarie da parte di una massa di studenti spesso, diciamo… indisciplinati. Gli spazi dell’università sono ristretti e, spesso, alcuni comportamenti tollerabili possono creare discreti problemi. Il problema in questo caso non è la profondità dell’argomento, bensì la capacità di parlare con codici comunicativi che non si vivano come intromissioni, pressioni o imposizioni. Il progetto gioca bene con ciò che può essere considerato “ovvio” e si diverte a burlarsi di chi seguita a comportarsi in una certa maniera per dimenticanza o, peggio, disinteresse. Ecco che sedersi sulle scale – unico luogo di passaggio – quando la panca più vicina è a meno di due metri è un comportamento da sottolineare come stupido, così come buttare le sigarette in terra quando il posacenere è a portata di mano.
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Don’t be foolish

Eco-guerrilla: questo progetto utilizza un codice unicamente verbale con due livelli di comunicazione, uno più impattante, atto ad avvicinare l’utente al problema generale, ed un altro con un tono più informativo capace di approfondire le problematiche. Il tutto utilizza elementi della comunicazione guerrilla, in particolare il primo livello utilizza come timbri e/o stencil, così come il secondo che viaggia su stickers. La prima fase riesce ad individuare lo spreco o il comportamento negativo con precisione e decisione e la collettività ne prende coscienza con immediatezza. La seconda fase approfondisce su temi più generali nel caso di sensibilizzazione ambientale o particolari quando si debbono fronteggiare problemi di cooretto utilizzo di una stampante. Entrambi utilizzano uno stile grafico comune, suddiviso per colore per definirne il tipo di rapporto (uomo, oggetto, ambiente) e tende a scuotere con decisione dal torpore di comportamenti comuni e sonnolenti che finiscono per soprassedere i problemi più importanti.

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Eco-guerrilla

Markmind: in questo caso viene creato uno strumento che serve a condividere i contenuti delle riviste a disposizione dei ragazzi. Purtroppo con il cambio mensile della rivista si perde ogni traccia delle uscite precedenti e quindi la rintracciabilità di determinato contenuti che possono risultare utili per le ricerche dei ragazzi. A partire dalla forma circolare dei tavoli ai quali sono assicurate le riviste (4 per tavolo) vengono creati degli artefatti (un anello di carta suddiviso in 4 spicchi) da compilare da chi ne usufruisce per tramandare la memoria del contenuto di un determinato articolo. Sull’artefatto sono creati gli spazi per dei riassunti degli articoli o lo spazio per lasciare uno schizzo che riprenda le immagini dell’articolo. Una volta finito il mese lo spicchio si ripiega e rilega assieme agli altri della sua rivista a formare un archivio cartaceo dei contenuti da riutilizzare più volte.

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Markmind

M-Usami: ancora diverso è l’approccio del progetto M-Usami, in cui viene considerato il rapporto tra le persone e con l’università, in particolare nei comportamenti dei ragazzi e la loro consueta refrattarietà nei confronti delle regole comuni. Si è voluto comunicare informazioni sensibilizzanti ma si è giocato molto sul codice visivo e comunicativo che richiama quello di un museo di scienze naturali arrivando fino ad “aggredire” oggetti e superfici degli ambienti comuni. Per invitare la raccolta differenziata viene raccontata la vita (infinita) di un bicchiere di plastica come un fossile impossibile da smaltire, oppure per invitare ad utilizzare correttamente gli spazi adibiti alla socializzazioni o al lavoro, viene ricreato un percorso museale in stile pompei, dove si raccontano i comportamenti atavici come se ci si interrogasse sull’inaspettata scomparsa.

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M-Usami

Show your icon: il progetto si propone di creare delle punti informativi dalla forte riconoscibilità in cui trovare tutte le notizie utili al corretto utilizzo o funzionamento di una stampante. Delle “stazioni” in cui si possa leggere delle considerazioni di altri ragazzi su un determinato argomento, oppure nozioni generali di carattere ecologico o sociale che possano essere di pubblica utilità. Perno dell’intervento, oltre la raccolta dei dati e la creazione di questi totem da apporre in tutti gli spazi dell’università, è l’interazione con questi oggetti che diventa fondamentale per capire l’interesse che essi e i loro contenuti suscitano nelle persone.

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Show your icon

Va tutto bene: ultimo, ma esclusivamente in ordine alfabetico, è questo progetto che si propone di sensibilizzare anch’esso a comportamenti socialmente accettabili e migliorativi della vita della comunità universitaria. Lo fa attraverso l’utilizzo quasi esclusivo delle immagini, lavorandole coscienziosamente per creare un filo logico preciso e riconoscibile. Si suddivide in comportamenti positivi e negativi e il racconto di questa suddivisione viene dalla posizione del soggetto fotografato: frontale nelle azioni positive, di schiena in quelle negative. La “sagoma” delle persone è pressoché la stessa cosa che e, assieme al tono generale degli scatti, conferisce familiarità e coerenza. Le singole pose raccontano i vari comportamenti e giocano con le azioni più comuni da cancellare o incentivare.

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Va tutto bene

Ultima fatica è la mostra allestita l’ultimo giorno. Oltre agli elaborati i ragazzi devono presentare il progetto, dall’inizio raccontando le problematiche affrontate, i media utilizzati e, in generale, il percorso.

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Appendice

La lista dei ragazzi: Martina Amadio, Serena Bartorelli, Johnny Bergamini, Matteo Boscarato, Emanuele Bruscoli, Federica Capotosti, Carlotta Cisterni, Giuseppe Digeromino, Giulia Faini, Sara Guazzarini, Rocco Leggieri, Luigi Maggiore, Giulia Marenga, Serena Mondaini, Jkita Montironi, Silvia Peduto, Tommaso Priore, Luca Raschi, Carlotta Rinaldini, Thomas Righi, Ilaria Ruggeri, Francesca Santi, Luca Sorbini, Francesca Speziale. Assistente: Lucia Del Zotto.

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Gli altri designer coinvolti: Ginette Caron, Stefano Rocchetto, Mauro Da Pieve, Luigi Mascheroni, Stefano Fariselli, Mauro Cazzaro e Francesca Basaldella, Francesco Pia e Ermanno Tasca.