M come Munari



 
È quasi finito il 2007. Anno di centenari importanti, come ad esempio la nascita di Bruno Munari. Di norma questo “compianto” sarebbe da farsi ad inizio anno o in prossimità della data esatta, ma ci sembrava scontato. E soprattutto ci sembrava funebre. Questa riflessione, infatti, più che essere un tributo (che, visto il personaggio, non si dovrebbe fare soltanto in queste occasioni) preferiamo sia “solo” un approfondimento, come da filosofia di questo blog. Abbiamo deciso di spiegare, secondo il nostro punto di vista – e le emozioni provate — la mostra aperta alla Rotonda della Besana, a Milano. Anche le immagini, di conseguenza, sono state scaricate dal press kit della stessa.
[Questo articolo è “spezzato” in più post per seguirne il senso — se si riesce a trovare,  — in modo migliore. In questo post inserisco le prime sezioni della mostra, che continueranno in seguito]
 
 
Bruno Munari, rotonda della Besana, 25 ottobre 2007, 10 febbraio 2008
Domenica mattina, ci alziamo con calma, la settimana è stata dura. Ma c’è un fine preciso per quella trasferta meneghina, la mostra del centenario della nascita di Bruno Munari. Un milanese, il più eclettico di quella scena così troppo spesso accostata a visioni di sterile materialismo e produttivismo. Un milanese al quale, secondo i bene informati, si rischiava non fosse celebrato il meritato tributo, colpa a quanto pare delle meglio retribuite sculture grasse di Botero e mostre di stilisti. Fortunatamente non è stato così ed anche la sede scelta per l’evento è risultata una piacevole scoperta e, per il futuro, una risorsa sotto molti punti di vista. La mostra si tiene, infatti, alla Rotonda di via Besana, meglio nota come Rotonda della Besana, zona piazza 5 giornate, più comodi di così si muore. A parte le ragioni di comodità, il luogo è veramente unico, e non mi è ancora chiaro (bugiardo) perché non venga sfruttato adeguatamente. Si tratta infatti di una struttura a croce greca, forma che permette la concentrazione degli spazi, una sorta di «democratizzazione», dove attorno ad un centro al quale si accede da ogni lato si aprono spazi senza soluzione di continuità e, soprattutto con lo stesso livello di importanza, senza una gerarchia precisa, ognuno «fondamentale» allo stesso modo. Il percorso della mostra, infatti, dimostra apertamente l’influenza della struttura ospitante. I curatori hanno scelto infatti di far ruotare attorno alla grande campata sotto la cupola centrale, le 9 sezioni della mostra. Il culmine di essa, appunto si trova al centro con i laboratori didattici per bambini che li permettono di rivivere le stesse emozioni ed esperienze fatte da centinaia di bambini che hanno avuto la fortuna di seguire i suoi laboratori quando era in vita. Sbaglio, forse a chiamarlo «culmine della mostra», perché, ovviamente il suo utilizzo o meno sarà ovviamente influenzato da molte varianti, tipo il tempo che i genitori hanno da destinare oppure, semplicemente, noi, non essendo bambini non potevano partecipare. Mannaggia. Vabbé, mi consolo rivivendo la mia infanzia nell’inverosimile e spassoso caos che le creature emettevano maneggiando la creta.
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E mi verrebbe da dire di più, ma in quell’ambiente così puro da sembrare, agli occhi di oggi, irreale, ti aumenta la voglia, ormai annichilita da una modernità ossessivo-compulsiva, di diventare padre. È il potere della creazione che esplode dalle opere e dalle idee di un omino così semplice, così buffo. È il potere dell’idea che esonda, che copre con veemenza le sterili praterie dell’apparenza e del consumismo. Come può una scultura di carta, da piegare in valigia ed aprire ed appoggiare sul comodino di una anonima, vuota stanza d’albergo confrontarsi con una appariscente, costosa, inquinante, lussuosa, ostentante automobile di lusso? Sono entrambi frutto di una scelta. Ma quali sono le domande che ci si pone per poi poter giungere a soluzioni tanto diverse? E non si può neppure dire che Munari fosse stato un’icona del design iper-funzionale tipo Dieter Rams o Tomàs Maldonado! Anzi, le sue scelte, spesso erano frutto di sperimentazioni «futili», o meglio «inutili», perché in esse riconosceva le radici della creazione. Le «Macchine Inutili» servivano apposta a questo fine. Sculture di chiaro impianto concretista, nella ricerca delle forme e dei colori in quanto esistenti; con influenze dadaiste per la propensione all’inutilità e la conseguente interrogazione sulla necessità stessa della sua — dell’oggetto – esistenza.
Questo è un piccolo antipasto, per presentare il suo lavoro e, soprattutto, l’apporto teorico alla disciplina. Il design è una attività strana, sempre difficile da definire, da inquadrare; non si è mai tanto sicuri se è destinata a risolvere i problemi o crearne di nuovi mascherati da nuove, incredibili soluzioni. Bruno Munari è stato in grado di scrutare l’iperuranio delle necessità umane. Ha fatto una scaletta, ha sicuramente deciso di far emergere una visione relativistica del problema, non è privo di personalismi, questo approccio al design. Non è freddo e calcolatore, ma neppure caldo e umorale. Forse è una via di mezzo, forse è caldo & calcolatore, di certo non freddo & umorale. È figlio del proprio tempo, come tutti i grandi, di ogni mondo e genere, capace di percepire i cambiamenti e proporre le sue soluzioni. Ed è appunto qui che si scinde la figura del designer qualsiasi e quella del genio (parola alla quale non credo, che qui ha un ruolo puramente figurale). Riesce ad «imporre» la sua visione come un procedimento universale, appunto perché il suo apporto è il procedimento non la finalizzazione. E tuttociò, ci tengo a sottolineare, deve essere sempre fatto coesistere con il suo mondo. Un mondo fatto di piccole cose, di object trouveé, di oggetti grafici, problemi semplici e/o quotidiani, design anonimo. Un mondo fatto di leggerezza, sostenibilità; beninteso, non siamo di fronte alla star del design, ma ad un omino piccolo piccolo, che vestiva in maniera normale, forse un po’ all’antica, senza fronzoli artistici e eccentricità d’ogni sorte. Cosa che mi fa pensare che, per l’appunto, nessuno delle grandi icone del design del xx secolo — tipo Max Bill, Walter Gropius o Achille Castiglioni e Charles Eames — si presentava come un «dandy»; evidentemente hanno preferito lasciare certi barocchismi ad altri ambiti «culturali».
La mostra, giustamente secondo me, esplora l’attività di Munari, sia attraverso un semplice percorso temporale che suddividendolo in 9 sezioni: 9 aule che affrontano ognuna i diversi temi che si mescolano frequentemente per via della natura stessa del suo lavoro, che riesce a stabilire collegamenti all’interno del percorso anche a distanza di decenni. Dal catalogo della mostra: “Inizia infatti dalla fine degli anni Venti e tutti gli anni Trenta che vengono presentati come un prologo alla sua attività futura. Coinvolto dal Futurismo, rielabora le tecniche e all’immaginario surrealista nei suoi disegni e nei suoi collage e spazia senza soluzione di continuità tra le discipline e i linguaggi senza stabilire graduatorie di valore, ma solo distinzioni di funzione, tra arte, arti applicate, grafica pubblicitaria, arredamento. È questa la scelta operativa di stare “tra” i linguaggi, cercando di comprenderne i meccanismi di funzionamento e di comunicazione, che Munari coltiverà per tutta la vita, e che costituirà una sua anticipatrice concreta peculiarità rispetto alle quasi contemporanee teorie sulla sintesi delle arti. Questa libertà gli consentirà di ideare, nel solco della “tradizione del nuovo”, la “Macchina aerea” del 1930, il ciclo delle “macchine inutili” (1934) e le “tavole tattili”.”
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La prima sezione indaga le opere più giovani, sia per lo spirito avanguardista che il periodo storico. Si tratta di opere legate al periodo futurista tardo, già commistionato con la pittura surrealista, sia italiana che estera. Libera infatti un’immaginazione fervida, che lo portano subito a staccarsi dalla superficie bidimensionale e cercare risposte oltre i limiti convenzionali, ma, si capirà, questa è la storia di un periodo che ha dato molto alla storia delle arti. Analizza la vita di figure artificiali nello spazio, come esse si comportano, a che cosa servono, che sensazioni suscitano; non abbandonerà mai l’approccio sperimentale che lo pervade: ogni cosa, anche la più semplice, la più insignificante è portatrice di tesori che solo lei custodisce e questo è oro puro per la ricerca. Forse sarebbe opportuno cercare di più in questa direzione. Capire perché per i più grandi designer, e non solo, della storia, la grandezza stia nell’impercettibile, la maestosità nella leggerezza, la perfezione nella semplicità. Ed allora a Bruno Munari non interessa la finalizzazione ma lo sviluppo perpetuo, la vita di un oggetto, di un’opera. Così indaga la quarta dimensione perché crede che l’opera abbia un continuo divenire ed il suo significato sia mutevole. “Il progetto è una sorta di “crescita” senza soluzione di continuità tra le dimensioni, e in cui l’aspetto temporale è ben presente nella modifica quasi organica del progetto, e il modulo geometrico – icona della Modernità – nel metodo ideativo di Munari si trasforma in qualcosa di più complesso, più mutevole e più adattabile alle variabili della realtà naturale”.
Durante la visita della prima sezione abbiamo scoperto che tutto il percorso guidato dalle audio-guide è «tenuto» dallo stesso artista. Sono state infatti prese, ritagliate e ricostruite alcune delle sue numerose registrazioni e «posizionate» lungo il percorso, a costituire molto di più di un corredo, bensì la spiegazione - alla sua maniera - dell’artista stesso. Spiegazioni che non sono mai pompose declamazioni della genialità, monumentali analisi scientifico-linguistiche di critici che hanno voluto scovare oltre alle reali intenzioni. Sono chiacchierate simpatiche, cordiali, spesso corredate da un risata che svela l’inadeguatezza del soggetto al ruolo di “star”. Ruolo — apro una parentesi — del quale se ne farebbe sicuramente a meno e bisognerebbe educare chi crea queste figure improprie; spiegargli che il designer e la star, l’autore, non hanno ragione di essere appaiati, creano solo imbarazzi ed incomprensioni con la gente comune, con la committenza che non capisce perché in confusione.
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Bruno Munari non era così, infatti si è “rifugiato” nella «poesia», nella cultura, nelle filosofie orientali, nei sogni dei bambini. Sempre dal catalogo: “Munari applica questo processo a tutti i suoi progetti, sia di design che di arte, sin dall’inizio della sua attività e, benché attuata in modo più pragmatico che astratto, in questa azione si può riconoscere una notevole vicinanza con la recente teoria dei frattali, che ha concettualmente rivoluzionato l’idea tradizionale di misura e di limite”. Questo metodo si concretizza in una forma funzionale, che per Munari è estetica e maieutica. “Percepire comprendendo la realtà, o comprendere la realtà percependola è lo scopo principale della sua azione estetica.” L’artista si comporta come una levatrice, aiutando gli altri — o se stesso — a “partorire” la verità, per capirci: “tale metodo, consisteva nell’esercizio del dialogo, ossia in domande e risposte tali da spingere l’interlocutore a ricercare dentro di sé la verità, determinandola in maniera il più possibile autonoma”. E la ricerca di una forma qualsiasi di risposta si attua nell’intercambiabilità del ruolo del designer, visto come persona inserita in un mondo complesso e variegato, che doma più linguaggi e codici contemporaneamente e “sfugge alle catalogazioni”. Annullando sistematicamente, concretamente la sua “vanità” riesce a sistematizzare, standardizzare la soggettività. Raramente era accaduto prima. Così anche nelle opere artistiche emerge l’uomo Bruno Munari contemporaneamente ad una problematica universale, senza distinzioni programmate a priori. È l’approccio che farà grande il design italiano: soluzioni universali e forme universali, la nascita di un modo anziché una moda senza la rinuncia alla diversificazione. Una soluzione, non la soluzione. Ci torneremo quando arriveremo alla sezione del “Compasso d’Oro ad Ignoti”.