M come Munari [continua]



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Continua il report della mostra di Bruno Munari, già iniziato nel post precedente. Annuncio, per chi è interessato a seguirlo, che ci sarà ancora una terza ed ultima puntata che completa la trilogia.

[…] Nel frattempo il percorso di mostra propone un taglio sincronico sulla sua produzione pittorica. Partendo dal Concretismo e il Neoplasticismo delle origini arriva all’Arte Programmata, come se l’analisi dell’esistenza e dell’essenza della forma si fosse spostato alla ricerca di risposte su come vive, come si sviluppa, cosa genera. La sperimentazione porta a “superare il limite”, a viverci a cavallo, in bilico, come ad aspettare il momento propizio per passarlo definitivamente. Questo limite è dato da tanti aspetti, soprattutto esterni, che delimitano e impongono forme e funzioni, ruoli e comportamenti. Viveva il suo compito, o meglio, il compito di una figura come la sua, come l’analisi di questi limiti e di queste imposizioni e si chiedeva costantemente come era possibile superarli, elaborandoli in nome di qualcosa di necessario, forse una forma di armonia superiore, modificando sia l’oggetto o l’opera sia le condizioni esterne. Sapeva che quello che faceva intaccava la quotidianità di ognuno di noi e, a differenza di altri che utilizzavano questa forma di potere per imporre il proprio gusto, ha fatto in modo di progettare in maniera sostenibile e non invasiva. “Nelle idee e nelle cose si celano più possibilità di quante non ne abbiano attribuito loro la consuetudine o l’abitudine al loro uso, persino di quanto non ne abbiano pensate i loro inventori, quando ci sono. Ecco allora che chiedersi se uno strumento progettato per riprodurre copie tutte uguali possa di fatto diventare creatore di pezzi unici, come nelle “xerocopie originali” (dal 1964), oppure se la forma-libro mantenga la sua riconoscibilità anche in assenza di parole o di materiali tradizionali (come nei “libri illeggibili”), o ancora fino a che punto un triangolo rimanga tale, benché sottoposto a tensioni (come nella struttura geodetica delle foglie carnose del fico d’India), accresce le potenzialità dei progetti e degli oggetti, e soprattutto arricchisce la capacità conoscitiva dei soggetti.”

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Questa necessità si rivedere l’impianto generale della relazione tra cose e persone arriva presto a rivoluzionare il concetto stesso di casa. “Bruno Munari ci vuole attenti e sensibili”, vuole che viviamo in prima persona, che modifichiamo ciò che ci circonda in maniera attiva, non vuole che accettiamo pedissequamente. Ci vuol far partecipi di regole di vita, sistemi di condivisione e coabitazione. A partire dalla nostra casa. “Entrare a “casa Munari” vuol dire attraversare porte dopo essersi annunciati in un altro modo, e così alimentati, poter vedere ovunque segni di un’arte che può cambiare, realmente o percettivamente, mai richiusa su se stessa. E ritrovarsi in case per tutti, intelligenti e pratiche, economiche e funzionali, accoglienti e mai lussuose, come era la sua abitazione di via Vittoria Colonna a Milano, luogo di evidente e palpabile magia, di bellezza da gesti discreti. Munari vuol dire abitare anche a misura di bambino, predisponendo luoghi ad hoc come spazi autonomi dei piccoli nelle case dei grandi, rifugi intorno ai loro corpi costruiti con materiali e tecnologie differenti, dai metalli ai tessuti.” Ed è così che, con il sogno modernista riflesso sulle pupille, che il designer pensa alla casa dell’uomo. A come ottimizzare gli spazi, ridefinirli, ridisegnarli. Gli spazi si recuperano: i moduli recuperano gli spazi «morti» che si creano in casa tra i mobili, i muri, i disimpegni. Assieme a Lorenzo Forges Davanzati e Piero Ranzani individua la struttura minima, identificata in 50 metri quadrati e ne recupera 12 solitamente inutilizzati. La casa non è più un luogo da vivere a più livelli, bensì un unico strato che unisce, pieno di luce e libero da ingombri. Un continuum che ragiona sugli sprechi e restituisce aria e spazio. Figlio di una analisi quasi inedita sulla casa occidentale in relazione con quella orientale, costringe lo spettatore ad ammettere che alla mancanza di «calore aggiunto» fa guadagnare in spazi vivibile, in «opportunità sociali», dal ricevimento di amici alla crescita di figli. Inoltre, non credo che a Munari piacesse produrre e vendere oggetti finiti, senza offrire l’occasione di aggiungere la propria personalità. A maggior ragione in casa, offre una possibilità di «riscatto», permettendo, o meglio, obbligando a viverla in prima persona, senza imporre la propria personalità, ma mettendola al servizio del progetto.

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Vi è forse un pizzico dell’esperienza avanguardista di riciclare e assemblare, in aggiunta allo spirito critico del designer, che ha come fine l’utilizzo sociale, il circolo e la diffusione dell’idea. Questa influenza, soprattutto dadaista ritornerà addirittura nel 1991, con Davide Mosconi, quando fa «esplodere» il “biglietto da visita” di un individuo, manifestando la sua passione e/o professione direttamente sulla porta di casa. Ed è così che un marmista avrà appeso un foglio di marmo che risuonerà come un gong quando dall’esterno si azionerà un peso che batte sull’esterno della porta. È, se vogliamo, un esercizio di stile, forse anche un barocchismo, sicuramente è una sottolineatura di un concetto che attraverserà l’intera esistenza di Munari: l’uomo è e si deve manifestare per quello che è. Ma il pezzo principe della produzione di interni è e rimarrà l’abitacolo del 1971, prodotto da Roberts. Paradossalmente è una “palestra” che permette al bambino di imparare ad organizzare un suo “topos”, un “gabbia” per bambini – che io vorrei farei produrre nuovamente domani mattina come postazione lavorativa in un loft, per esempio — che può essere personalizzata in maniera quasi infinita; è una struttura neutra, senza imposizioni di gusto, che, però si accende al primo oggetto che viene inserito, agganciato, appoggiato, legato. Il successo culturale di un’idea del genere, a mio avviso, passa anche attraverso il nome. «Abitacolo» è qualcosa che si associa ad una auotomobile, alla cabina di guida di un aereo o un treno. È ancora più spudoratamente figlia di una concezione pura ma, già per quei tempi, “romantica” e democratica del design, che è quella modernista. Da quel momento in poi chi aveva il potere di assegnare la propria firma, divulgare il proprio interesse ed imporre le proprie idee, ha avuto carta bianca.

Quindi la produzione di Munari si sposterà in ambito con meno competizione e sotto un certo punto di vista, meno arroganti. Da quel momento in poi non sarà più un designer, per il «colto» mondo dei critici, ma un artista, o al massimo, un insegnante. Infatti, mentre quel mondo sarà impegnato a far emergere il nome e la firma del designer, Munari considerava fondamentale e doveroso assegnare un “Compasso d’oro ad ignoti”. Un premio, ad honoris causa, perché non si sa di chi sia la paternità. Alberto Bassi ci ha provato— nel suo recente volume sul design anonimo, citando le esperienze di due “recuperanti di idee” come Achille Castiglioni e Munari stesso — e non ha potuto che constatare, per buona parte degli oggetti, l’impossibilità di recuperare informazioni affidabili oppure la declinazione da una tradizione persa nella notte dei tempi. Parafrasando Kubler, questo premio ad ignoti riconosce “classi formali” che non finiscono mai, oggetti la cui fine viene decretata, eventualmente, dal disuso e/o la dismissione programmata o coll’avvento di un grande cambiamento sociale, come ad esempio la sega da falegname, rimasta immutata per secoli, viene sostituita da una analoga (quindil’essenza del funzionamento non muta, la forma cambia per accogliere ad esempio gli alloggiamenti del motore elettrico).

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Per Munari è molto semplice: sa benissimo che quello è il fine di quel mestiere. Il progetto è innescato da problemi di diversa natura e la soluzione più è semplice e funzionale più si avvicina alle persone che ne decretano la vittoria utilizzandoli per generazioni. Per esempio, il sacchetto di plastica — la cui introduzione è il più grande cambiamento del xx secolo — non ha necessità di mutare la sua forma, può avere solo ed esclusivamente bisogno di aggiornare la sua composizione, il suo materiale. Infatti il sacchetto di plastica è già una derivazione di una forma generale dallo stesso utilizzo, soltanto che deriva elementi formali dal processo produttivo della plastica stessa. Ad esempio, oggi, il sacchetto può mutare nella composizione se l’impasto col quale si crea il materiale si utilizzano elementi biologici invece che chimici. Ma la forma può non cambiare e il sacchetto rimane lo stesso. Munari sa che “semplificare è più difficile” e si può considerare come caposaldo della sua opera, per “progetti per la nostra quotidianità, una vita di tutti i giorni dove gli oggetti non inquinano semanticamente, distillati dal “togliere, togliere, togliere”, calibrati da intelligenza ed economia, e anche per questo fuori dal tempo”. Un esempio di come in ogni ambito della quotidianità si possa applicare questa mentalità propositiva ed evoluzionista. Inoltre ci teneva a far sapere che non era interessato ad assecondare le mode perché, diceva, “niente passa tanto di moda / come la moda”. Seguendo queste indicazioni, nel 1953 crea la scimmietta Zizi e nel 1964, progetta la lampada di maglia falkland. Dal catalogo della mostra, per la prima: “Per qualcuno la prima scultura interattiva, per altri un gioco che risponde alle sollecitazioni del bambino, per altri ancora la dimostrazione di come qualunque materiale (in questo caso la gommapiuma) possa essere utilizzato in modo spiazzante rispetto alle consuetudini (di poltrone e divani)” e per la seconda “Semplicità visiva, efficienza, minimo ingombro di stoccaggio e massima resa formale: è il risultato della commistione di oggetti lontanissimi tra loro come le nasse da pesca, le calze da donna e le lampade di carta orientali.”