Costruiamo una nuova nazione?



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In un laboratorio di tensione – e bisogna tenere alto il livello di tensione – c’è spazio per ogni tipo di «movimento», soprattutto se crea delle tensioni, appunto. Premettiamo che in questo blog non si parla di politica, o meglio, non se ne ha nessuna intenzione, il concetto che ci limitiamo a sottolineare che se al livello più alto delle aree della teoria del progetto di anceschiana memoria c’è la “discussione attorno alla disciplina” e questo spazio è occupato da numerose materie che lambiscono anche ambiti sociologici e di studio delle attività umane. Di quest’ultime: quali? Visto che spesso non esistono più?

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In copertina, sx poltrona Gedda, Angelo Figus e Maria Raimonda Pinna; dx poltrona Tappo, Tomoko Mizu e Nonsoloferro


Queste impressioni nascono, oltre che dall’esperienza quotidiana e dalla personale sensibilità nell’analisi degli input esterni, dalla pubblicazione di diversi testi, articoli o spunti vari trovati sui giornali, cartacei e online e su magazine di interesse internazionale. Ci permettiamo di riportare alcuni di questi link.

Partendo da Monocle, nel numero 6, anno primo, della rivista viene dato ampio spazio alle nazioni senza stato, come l’Abkhazia (ringraziamo i nostri efficienti organi di informazione per darcene continua notizia, d’altronde non ce n‘è nessun motivo, n.17) e altri luoghi del pianeta che sono in continua “lotta” per raggiungere un’identità. Appunto, identità. Cosa ci fa pensare? Sulla copertina di Monocle campeggia un aitante atleta che indossa una di quelle canotte che fanno pensare ad uno sperduto stato o arcipelago esotico, tipo St.Kitts & Navis per esempio… Chiede se riconosciamo questo stato e subito ci viene da arrovellarci per azzeccarlo. Invece è nuovo di zecca. È una fantomatica “Costa Azzurra”, nata dallo sfascio dell’Italia (mica utopia!) e dall’unione dell’ormai ex Liguria con il Principato di Monaco. E, genialmente, viene creata una perfetta corporate identity con tanto di logotipo, stemma, colori, passaporto, francobolli e così via. Tuttociò, per me che sono forse portato ad emozionarmi facilmente, è geniale! Si tratta tutto sommato di un invito a muoversi per cercare di ristabilire lo «stato dell’arte» delle identità culturali, se sono adeguatamente rappresentate, se sono vere o costruite col tempo da propaganda ed “incuria”. Se coincidono con i poligoni che le contengono oppure hanno l’insostenibile necessità di esprimersi. In seguito ho riportato un articolo che considera l’ipotesi della fine degli stati nazionali — e la conseguente fine della democrazia — e tra le cause non viene mai considerata la spinta “secessionista” di popoli probabilmente vessati da stati sovrani.


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bandiere sconosciute…

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Sopra, Nuovi Arburesi, Giulio Iachetti e Coltelleria Is Lunas. Sotto, Pabillonis, Paolo Iulian e Giovanni Deidda.

Perché pubblicare una cosa del genere su cmyk? In primis, perché è una questione di progetto/funzione, se le cose non funzionano devono cambiare, se il tuo rubinetto perde o consuma troppa acqua lo cambi. Punto. A meno che non si voglia inventare una “Epopea dei rubinetti” ai quali aggrapparsi quando qualcuno paventa l’ipotesi di ripensare l’oggetto “rubinetto”.
Oltre a questo, data l’evidente mancanza di questioni «di fede» soppiantata dalle questioni «di portafoglio», mi sono sentito colpito dall’articolo del Corriere quando lo metto in relazione con i temi che si trovano invece su Monocle. Da una parte la paura di perdere la sovranità costituitasi nei secoli, dall’altra invece il sogno per una propria identità tenuta celata per chissà quanto tempo e con chissà quali metodi (che purtroppo o per fortuna si conoscono).

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Sopra, sedia Ferula, Antonello Coccu e Paolo Mureddu; sotto, a sx, Suber, Pierluigi Piu e Nonsoloferro, a dx, Arcipelago, Berselli Cassina associati e So.Pi.N.

Un altro esempio che mi sta a cuore salta all’occhio quando vedo, oggi, il frutto di queste scelte chiamate a suo tempo “unità”, “risorgimento” e bla, bla bla… Che cosa ci è servito unirci? Non voglio parlare di cose troppo grandi, ma mi limito a considerare alcune cose: come è stata messa in uso l’esperienza maturata nei secoli dalle popolazioni che sono state “unite”? Ad esempio, la nostra febbre dell’erba del vicino (ora si intende verso altre nazioni, prima era tra nord-sud, penisola-isole, città-campagna, pianura-montagna) ci ha indotti a importare, oltre a beni che noi ci siamo detti incapaci di pensare e fare (quindi NOI manchiamo di qualcosa), anche metodi, standard, visioni della società e della socialità. Uscendo dall’ambito politico, come possiamo declinare questo processo nel pratico e nel quotidiano? A partire dal fatto che se parli una lingua o un dialetto discendente dalla tua terra sei un barbaro, fino alla sostituzione delle invenzioni, intuizioni e prassi della tradizioni con standard “evoluti”, che, ovviamente, se ne eri sprovvisto, eri automaticamente un barbaro, una bestia, insomma. Fino alla televisione. E qui mi fermo per non farmi querelare. Insomma, come mai si sente la necessità di rivedere queste istituzioni mastodontiche? Perché sono la negazione del pensare semplice, logico, funzionale. E fino a quando era accettabile scambiare la propria libertà con un progresso generale e relativamente (ad oggi) onesto, si poteva fare, ma ora? Quando il giocattolo del “produrre a minor costo” abbassa non soltanto la qualità dell’oggetto, come faceva prima, ma demolisce lo stile di vita di chi prima aveva i soldi per comprare (ora non li ha più perché non li produce più), come si fa a dire che certe soluzioni globali siano state le migliori? Le crisi, le truffe finanziarie, i mutui stellari, le casse integrazione, le fabbriche che chiudono perché produrre non rende o perché il proprietario vuole fare cassa con i macchinari (etc, etc) che cosa ci fanno pensare? Forse questo sistema che abbiamo contribuito tutti a creare è giunto alla fine delle sue potenzialità, ed ora, nella fase della disgregazione mostra a tutti quanti il conto. E come si ricollega tuttociò con il tema generale di questo post? Perché a mio parere la logica mi fa pensare che io debba tornare a produrre a casa mia, perché devo essere in grado di produrre quei soldi che mi servono per comprarli, i beni di cui ho bisogno. La filiera corta, il km zero, le produzioni industriali derivate dai materiali di cui il territorio dispone invece di abbandonarsi a “comprare” tecnologie, e basta; fino alla produzione e il non-spreco dell’energia. E di conseguenza lo sviluppo di un “design territoriale”, che si adatta al territorio in cui si opera, invece di centri del design, come abbiamo oggi, che definiscono gli standard e obbligano tutti ad esserne schiavi (visto che gli standard sono disegnati ad hoc intorno al centro di potere e le periferie non hanno le caratteristiche per comportarsi nello stesso modo).Tipo questo, che, neanche troppo casualmente si trova su un sito straniero. Oggi siamo troppo abituati al non fare più nulla, ad accettarlo così com’è, anche tra i designer, che applicano il nuovo che arriva da chissà dove, che vedono sugli annual e non trovano niente di meglio che ripetere pedissequamente. E questo, crediamo, è assolutamente il nostro male peggiore.

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Elica e Unghia, Giuseppe Flore e Saa.

Le immagini dei prodotti sono tutte estrapolate dal sito Domo.

Un altro esempio di come sarebbe necessaria una revisione di certi dogmi, viene dalla Sardegna, ad esempio, è appena stato editato un interessante libro che ragiona sulla natura storica e culturale della bandiera che li dovrebbe rappresentare (uso il condizionale perché si tratta di un movimento vivo, in divenire, che fa della non–violenza il proprio cavallo di battaglia; piccolo post-scrittum: in caso contrario avrei avuto più remore nel presentarlo), scritto da Franciscu Sedda “La vera storia della bandiera dei sardi”, Condaghes, Collana “Pósidos”. Il saggio è l’esempio perfetto per descivere un procedimento di analisi che deve essere fatta sui contenuti e deve produrre contenuti. Il designer, di fronte ad un tema di questo genere, si troverebbe schiacciato da storie di civiltà millenarie, impossibili quasi da descrivere, tantomeno da sintetizzare in un segno. Spesso le identità visive degli stati sono pompose riedizioni di «crest» nobiliari e se non lo sono esattamente, usano comunque lo stesso codice. Su Monocle, ad esempio, viene suggerito uno standard di progetto che considererei furbo, ma estremamente concreto. Le immagini parlano chiaro.

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Immagini da Monocle.

Vi lasciamo con l’ultima perplessità, che ci viene dato da un articolo apparso su Corriere.it di Eric Hobsbawm che si intitola: “Se il mercato uccide la democrazia” Cito soltanto due passaggi: innanzitutto il sottotitolo: “Decadono gli Stati Nazionali. E così l’unità di’Italia, Spagna e Gran Bretagna è a rischio”. Il motivo è presto detto: 1) “La mia tesi è che la fase attuale dello sviluppo capitalistico globalizzato lo sta minando alle radici, e che ciò avrà — anzi, sta già avendo — serie implicazioni per quanto riguarda la democrazia liberale come viene intesa oggi”, 2) “Oggi ci troviamo di fronte a un’evidentissima secessione dei cittadini dalla sfera della politica. La partecipazione alle elezioni appare in caduta libera nella maggior parte dei Paesi liberaldemocratici”. L’integrità territoriale degli Stati moderni — ciò che i francesi chiamano «la Repubblica una e indivisibile» — non è più data per scontata. Fra trent’anni ci sarà ancora una singola Spagna — o un’Italia, o una Gran Bretagna — come centro primario della lealtà dei suoi cittadini? Per la prima volta in un secolo e mezzo possiamo porci realisticamente questa domanda. E tutto ciò non può non influire sulle prospettive della democrazia.