Primo: pensare #2



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Nella prima parte avevamo documentato la lista della spesa di un gruppo emergente di designer (donne, ci tengo a sottolineare) che ha le idee chiare. (Tra l’altro, alcune ragazze della specialistica in comunicazione di Venezia le hanno intervistato durante il workshop tenuto a Fabrica e presto posteranno il risultato online, ed io, diligentemente, riferirò). Nella seconda puntata dello sviluppo firmato cmyk made® su questo argomento andiamo a scomodare un guru della storia del design. Originariamente questo argomento si trova su un recente numero di Wallpaper, il «triplo» numero di settembre (2007), ed è perfetto per il nostro tema.

 

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Trattasi, infatti di “Ten Commandments” di Dieter Rams (anche qui), storico industrial designer attivo principalmente dagli anni ‘50 e fondamentalmente un interprete fantastico del funzionalismo. Lavorerà con le “direttive” da lui elencate e care ai designer della scuola di Ulm, ai razionalisti e, oggi, molto apprezzate dalle nuove generazioni che spesso rigettano la sbornia del post—industriale. È un periodo d’oro, finalmente e giustamente direi, per Dieter Rams, infatti ogni ambiente del settore si è accorto della sua importanza ed è facile trovare intervistemostrepremiazioni e collezionisti (e ancora mostre) a lui dedicate. Da Designboom, sito che consigliamo fortemente, ho estratto una risposta cardine per il nostro punto di vista:

“form follows function?
yes, form has to come after function, I can’t conceive of it in any other way. there are certainly psychological functions as well, it is a matter of balancing the esthetic content with regard to use.”

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Good design is innovative.
Good design makes a product useful.
Good design is aesthetic.
Good design helps us to understand a product.
Good design is unobtrusive.
Good design is honest.
Good design is durable.
Good design is consequent to the last detail.
Good design is concerned with the environment.
Good design is as little design as possible.
Back to purity, back to simplicity.

La prima cosa che salta all’occhio è che tutti i punti hanno l’aggettivo «good» accostato al termine design. Dal punto di vista di CMYK il design può essere definito tale solo SE «good». Il termine è in voga da molto tempo, ma pare che per qualcuno non sia un imperativo per un designer, ma una moda… come se un BAD design fosse contemplabile. A dire il vero proprio in questi mesi si è discusso su una serie di progetti di graphic design cosidetti «ugly», ma come sappiamo c’è una bella differenza tra «brutto» e «cattivo». Infatti non si parla mai di «beauty» design, fortunatamente, direi.

Analizzando velocemente i punti di Rams ci si rende conto che il design dev’essere innovativo, deve «rendere i prodotti usabili», comprensibile, sviluppare l’aspetto estetico ma allo stesso tempo fare in modo che quest’ultimo non prevalga sull’oggetto stesso, deve essere onesto. Cosa vuol dire tuttociò? Vuol dire che «design» è un processo che non ha l’aspetto estetico come fine, bensì solo come uno dei punti da valutare. Di cosa parliamo quando si sbandiera il «Made in Italy»? Vogliamo vedere se i progetti che hanno generato questi prodotti rispettano i punti di Rams? Se penso a Ferrari, Gucci, od altri… Che cosa ha permesso che negli ultimi 20 anni fossero il «must» da prendere ad esempio? L’unico aspetto, a mio avviso veramente importante, che eleva il «Made in Italy» è quello dell’artigianalità. La aggiungerei come 11 punto alla lista di Rams. Lui non l’ha inserita (forse) perché i suoi campi di applicazione erano principalmente tecnologici. La “modellistica”, alla Flaminio Bertoni, era probabilmente meno sentita. È probabilmente uno degli aspetti focali che hanno fatto vacillare e cadere l’utopia modernista. I tempi (post) moderni hanno sentito la crescente necessità di «restituire» le cose all’uomo (scusate) e di non sentirsi obbligati da regole e manuali («vietato vietare» vi dice nulla?) per sperimentare & sperimentare le più svariate combinazioni possibili ed immaginabili. Il risultato non ci interessa. Oggi quelle regole servono nuovamente, se ne avverte la necessità, soprattutto commistionandole con le ribellioni sopracitate, ma, soprattutto, per limitarle. Ebbene si, lo «sregolamento» va adattato alle regole, soprattutto a quelle sociali di rispetto delle esigenze ed alle funzioni, il resto, a mio avviso, è arte. Quindi non design, sicuramente non good design.

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Links

Libro di Max Bill | Good Magazine | Good Design Award | Articoli su Good Design | Bruno Munari e Good Design | Good Design is a Good Businness |