M come Munari [conclusione]



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Ecco il terzo (ed ultimo) tempo, come nel rugby, del report sulla mostra che la città di Milano ha giustamente organizzato per ricordare il centenario della nascita (1907–2007) di un così notevole concittadino. Coloro che non avessero seguito questa improbabile rubrica sin dall’inizio ed anche coloro che si sono dimenticati tutto, trovano le prime due parti qui la prima e qui la seconda. Ricordo inoltre che Mu-nari, in giapponese, vuol dire “Fare da nulla”. Tanto per dire…

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Dopo l’ambiente dedicato al design di prodotto la mostra ci conduce alla sezione della grafica e della comunicazione. Egli operò molti anni, dalla fine degli anni ‘20 fino a fine ‘70, e sperimentò moltissimo perché credeva fortemente nella forza del linguaggio. Aprì nel 1931 uno studio a Milano con Riccardo Ricas, nel cui slogan promozionale risuonavano tematiche tipiche della prima fase, quella dadaista. “La nostra fantasia è a vostra disposizione per qualsiasi problema pubblicitario, specialmente per i più difficili. Progetti per annunci, pieghevoli a sorpresa, fuochi artificiali, francobolli, affreschi su cranio, fotogrammi, archi di trionfo”. In realtà la sua produzione si intensifica negli anni 50 operando per numerose case editrici. La produzione grafica si intreccia fortemente con quella artistica quando si parla dei suoi libri. Proprio quelle esperienze professionali ed artistiche, mescolate con praticità del libro e con la messa in discussione del ruolo in atto già dal futurismo, gli permettono di sperimentare sui binari del suo personale approccio alla comunicazione, nuovi scenari ed applicazioni nel campo editoriale. È così che nascono i libri per bambini, i libri illeggibili (1949), i prelibri (1979), il libro-letto (1993). Oltre alle realizzazioni professionali per Bompiani, Editori Riuniti, Rizzoli, Zanichelli, Corraini, ed Einaudi, in particolare, il cui progetto col quadrato rosso su fondo bianco per la collana “Nuovo Politecnico” ha “contribuito in maniera determinante al successo della storica casa editrice torinese”.

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i amava guardare alla natura per imparare a fare, chiedendosi sempre il perché di ogni cosa, e domandandosi sempre “ma non si può fare in un altro modo?”. È questa la fase più criptica della mostra, quella che propone opere d’arte concettuale e forse le meno fortunate della sua lunga carriera. Tra queste vale la pena ricordare un’opera del 1959, Fossili del 2000, elementi elettronici (valvole termoioniche) immersi in resina di poliestere a mo’ di insetto inglobato nell’ambra di preistorica memoria, che ci rimane impressa per due motivi. Il primo per la realizzazione geniale di un pensiero ovvio: tuttociò che noi chiamiamo «moderno» o vediamo come il «futuro» prima o poi diventa vecchio, e poi perché ci ricorda dell’importanza delle mostre. Infatti oggi, quasi 50 anni dopo quel gesto, ci ritroviamo di nuovo di fronte a porci la questione, quasi come fosse una visita di routine, sul nostro stato dell’arte, della tecnologia, di evoluzione, eccetera, eccetera. Mi ricorda il film “2001. Odissea nello spazio”, che una volta giunti nel 2001, ci si è chiesti cosa di tutto quello profetizzato da Kubrick fosse divenuto realtà.

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Oltrepassato questo «cuscino» concettuale si giunge all’ottavo livello della mostra, chiamato “Vita come metodo”. È quello, a mio avviso più complesso di tutti, in quanto indaga l’opera di Munari «educatore», forse la sua «opera» più completa. È un percorso lungo quasi mezzo secolo, che parte da quando inventa libretti educativi per il figlio di cinque anni e continua fino alla fondazione nel 1977, a Brera dei Laboratori per bambini. Libri, timbri, proiezioni, costruzioni e giochi d’ogni genere per educare il bambino conscio della responsabilità sociale di non imporre un punto di vista ma di aiutare ad imparare. È così che inserisce fogli di cipolla nei telai delle diapositive per proiettarli a grandezza insolita e scoprirne la struttura, progetta libri dalle mille soluzioni tecniche per rendere inaspettata la lettura, fa disegnare albri, rami, foglie, nuvole, animali, li mette in relazione fra di essi, cerca di stimolare l’immaginazione dei bambini mettendo in relazione forme semplici a sensazioni esterne, facendo riconoscere il mondo che li circonda sotto un nuovo aspetto, più vivibile, più semplice. con Giovanni Belgrano produce per Dainese numerosi giochi come il Labirinto o ABC con fantasia, in quest’ultimo con cilindri, cubi ed altri solidi il bambino può comporre le lettere, cominciando dalle maiuscole, che sono quelle che impara prima, e le legge e decifra. “Giochi didattici, molti libretti con poche, pochissime parole, e una serie di libri che insegnano a disegnare osservando la struttura della natura, costellano i decenni più fecondi di Munari, che alla base considera il processo cognitivo del bambino infinitamente più importante dell’esito raggiunto, dell’oggetto prodotto. Riconoscere la struttura del mondo significa vivere senza paura”.

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Giunti all’ultima sala, mi trovo di fronte, secondo me, all’espressione più malinconica, forse il più introspettiva della sua lunga vita. È una mia impressione, ma qui si respira qualcosa di più serio, un riassunto, della sua filosofia, come un testamento. Il catalogo inizia così “Messaggio tattile per una bambina non vedente” è un punto di arrivo tra sperimentazione ed etica, tra educazione e sensibilità verso gli altri, tutti gli altri, anche perché “gli altri siamo noi”. Al pari con la settima sezione è anch’essa molto criptica, ma le opere sono parecchio significative. Tra tutte le “Rose nell’insalata” (1974) e le “Forchette parlanti” del 1958. Secondo me, due monumenti della sua produzione, a partire dalla necessità di cercare — e trovare — l’arte nell’insignificante, la sperimentazione che permette di “vedere” qualcosa che c’è ma non si è mai voluto vedere. Un po’ come tirare fuori la forma dal marmo, perché è già lì dentro. Baluardo di parte della mia educazione al progetto, la “stampa” con i vegetali e la frutta, l’ho sempre vista come qualcosa di criptico, come se ci fosse qualcos’altro che inducesse un distinto signore a snobbare le forme accettate e “nobili” per venerare cose insignificanti e comuni. Quando si riuscirà a capire che non c’è nulla oltre questo, non c’è nessuna piramide gerarchica tra le cose, che siano frutto della mano dell’uomo o della natura, che siano d’oro o stagno, forse si potrà capire cosa ci sia di tanto geniale in questo gesto.

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La seconda opera, le forchette, lo ammetto, mi ha sempre inquietato. E non mi è chiaro se mi scuotono quelle forme danzanti o il pensiero di non raggiungerne il significato, o meglio, di non capire «quale» Munari si è “acceso” per progettare questa cosa. Il Munari designer, che cercava di aprire nuove vie inesplorate per assecondare o cambiare l’azione di mangiare? Il Munari artista, che aveva capito che la forchetta è una sorta di arto che gli permette di gesticolare replicando quelli che facciamo noi ed inventandone di nuovi per costituire un linguaggio artificiale e nuovo? Il Munari educatore, che cerca di dirci in tutti i modi che non si può mai smettere di essere bambini, e che anche da qui si può partire per arrivare da qualche parte? Non lo saprò mai. Sicuramente ho trovato buonissimo poter vedere, a fine percorso due video lunghi e pregni che ricapitolano e ripresentano parte delle opere in mostra e ci permettono di ricordarli e metterli a confronto dopo aver visto tutta la mostra. Sono due video degli anni 70 e 80, della durata complessiva di 30-35 minuti. Il primo presenta una giornata di un laboratorio per bambini e non posso nascondere una sorta di gelosia per quei bambini così fortunati e una rabbia per come questa esperienza sia caduta nel dimenticatoio troppo in fretta. Uscendo, dopo aver comprato il catalogo, abbiamo seguito con una dose di nostalgia il workshop per bambini che continuavano a fare baccano e che infatti sentivamo già durante la visita, tra una registrazione e l’altra dell’audioguida, ed abbiamo pensato che sarebbe stato bellissimo poter far vivere a tutti i bambini queste esperienze. All’uscita dopo aver respirato un po’ d’aria con uno spirito diverso ci siamo resi conto che eravamo stati lì dentro tre ore. Immersi nel mondo di Munari, con pochissima voglia di uscirne.

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Qualche fotografia della mostra, su sdz ed un sito completo su Munari